Scuola per genitori ed educatori serata formativa

“Parlare ed ascoltarsi in famiglia: la comunicazione nella coppia e con i figli”

L’adolescenza: vivere non è facile…

L’adolescenza: vivere non è facile…

Nella vita di una persona il periodo dell’adolescenza corrisponde al momento di maggiori cambiamenti sia esterni sia interni; cambiano soprattutto gli affetti, i sentimenti e le relazioni. Ogni adolescente vorrebbe saltare questa fase di trasformazione e svegliarsi a cose già fatte!
L’adolescenza costituisce l’interruzione di una crescita pacifica, è uno sconvolgimento strutturale come pochi altri.  Se il ragazzo mantenesse un equilibrio stabile, sarebbe di per se atipico e anormale. Normale invece è che si comporti in modo incoerente e imprevedibile, amare e odiare i genitori, ribellarsi e dipendere da loro, vergognarsi e apprezzarli, essere generoso e altruista come egocentrico e calcolatore. Queste contraddizioni stanno a significare che una struttura adulta di personalità richiede un tempo per emergere. Ogni fase è premessa di quella dopo, questo significa CRESCERE, accedere a livelli sempre maggiori di difficoltà.
Nel passaggio tra latenza e adolescenza c’è un conflitto tra volontà di crescere e restare bambini.
Sia genitori che figli vanno incontro a perdite di potere, i genitori perdono l’innocenza dei figli, il ragazzo deve difendersi dai legami infantili, a volte con la fuga, a volte con l’indifferenza a volte col rovesciamento dei sentimenti (amore-odio, dipendenza-ribellione, ammirazione-derisione). Mentre il ragazzo vive il mondo adulto come fonte di sicurezza e appoggio, l’adolescente scopre che l’adulto non sa tutto e ne rimane deluso; sente pertanto l’impulso di allontanarsene e di rivolgere la propria affettività verso l’esterno, principalmente verso i coetanei. Eccolo allora credere ciecamente a ciò che dicono “i suoi amici che lo capiscono” e mettere in dubbio quello che dicono i genitori (“cosa volete saperne voi?”). Inizialmente l’adolescente adotterà i valori del gruppo dei pari cui sente di appartenere, che gli permettono di separarsi e individuarsi dalla famiglia; poi, nella maggior parte dei casi, arriverà ad assumere una morale autonoma, indipendente dal contesto esterno. Questo distacco è comunque costruzione del Se sociale, è un atto di coraggio, sostituisce la sicurezza che gli veniva dai genitori e si confronta nel gruppo che è fonte di appartenenza, ma anche di esperienza e apprendimento.  Ma in questo distacco non c’è solo libertà, c’è anche sofferenza. Il bisogno di opporsi fortemente è paralizzante quanto un’obbedienza completa, allo stesso tempo è necessario che la sua conflittualità esca e trovi un capro espiatorio al di fuori di lui. Quando contrariamente l’ostilità e l’aggressività sono impiegate internamente, vi è il rischio di assistere a fenomeni depressivi e di autolesionismo. Il dolore dei sentimenti può essere talmente insopportabile da volerlo sostituire con un dolore fisico, più palpabile e comprensibile.  Per sfuggire al tumulto interno talvolta c’è il rischio che si concentri solo sul corpo (ipocondria), o che regredisca. In questa fase precipitano le illusioni infantili di vivere una vita eterna. Per l’adolescente accettare di possedere la vita implica che potrebbe giungere in qualsiasi momento la morte. Alcuni ragazzi coscientemente o incoscientemente non lo tollerano e possono mettere in atto condotte di rischio, di sfida alla morte. In questo modo mettono in atto circuiti che riattivano l’onnipotenza, l’invulnerabilità (ecco l’atteggiamento irresponsabile di giuda veloce, azzardata, la litigiosità per un nonnulla che scatena la rissa, la scommessa con il rischio) ma che li possono portare a gravi incidenti.
Tipica di questo periodo è la tendenza al passaggio all’atto, l’impulsività (proprio per evitare di pensare ai motivi del conflitto) e la familiarità con l’idea di morte, com’è frequente la comparsa d’ideazione depressiva.
L’adolescente è in un momento di rinunce e lutti: crollano le illusioni personali e l’immagine dei genitori che diventa meno ideale. Diventa consapevole della distanza tra Io, ciò che è, e Ideale dell’Io, ciò che vorrebbe essere, delle imperfezioni dei genitori.

E’ un passaggio obbligato quindi che si ribelli alle regole e alle tradizioni familiari per trovare di proprie che non è detto si discostino così tanto da quelle d’origine.
Il soggetto deve farsi un’immagine di se adulto, creandosi un’identità che all’inizio prende spunto dalle figure più vicine, il padre, la madre, ma vi possono essere anche identificazioni inconsce. Se l’immagine dell’identità materna o paterna è troppo alta, può essere difficile da raggiungere, può essere difficile pensare di poter assomigliarci, poter diventare come lei/lui. Allo stesso modo se l’immagine del genitore dello stesso sesso è svilita, mancante, debole, un adolescente si discosterà da lui, lo sentirà ancor di più estraneo e vorrà starne lontano.
L’adolescenza è caratterizzata da una crisi d’identificazione, di angoscia verso l’integrità e autenticità del Se, del proprio corpo e proprio sesso: lui sa di esistere ma non sa ancora chi è, chi diventerà.
L’adolescente, infatti, è impegnato in una lotta emotiva urgente, è preoccupato per il tempo presente e non ha abbastanza energia da dedicare alle richieste esterne, ecco che così si spiega la sua difficoltà a essere puntuale, a ricordare gli impegni… il ragazzo mette in scena il problema che è poi il problema di tutti: integrare corpo e mente. Si vede e deve affronta il tema del doppio, il corpo, che non riconosce, lo vive come estraneo e deve farlo proprio (ecco spiegate le ore passate allo specchio!). Ha l’esigenza di essere rappresentato e contenuto nella mente degli altri.
Nell’adolescente i sentimenti di mortificazione e vergogna hanno un posto rilevante. Inadeguatezza, incompetenza, disagio e depressione sono sentimenti presenti.
Difficile ricordare l’atmosfera nella quale l’adolescente vive, proprio perché è così densa di emozioni forti che è necessario per tutti dimenticare un po’. Ma ognuno di noi ha vissuto le angosce, l’euforia, la profonda depressione, i facili entusiasmi, l’estrema disperazione, le appassionate e per contro sterili preoccupazioni filosofiche, le smanie di libertà il senso di solitudine, il sentimento di oppressione dei genitori, le rabbie impotenti o l’odio attivo verso il mondo adulto, le infatuazioni erotiche, le fantasie suicidarie… L’adolescente passa da una posizione emotiva all’altra, o le esprime tutte simultaneamente, o in rapida successione, lasciando poco tempo e spazio all’adulto per recuperare le forze e cambiare il proprio modo di trattarlo in base al bisogno mutato.
Per l’adulto è difficile riassettarsi ma è indispensabile accettare le proiezioni che l’adolescente da’ di Se, occorre prenderlo quando c’è, non lasciarlo sfuggire, altrimenti lo vedrà come un rifiuto. Importante è che il ruolo autorevole del genitore sia flessibile al punto da offrire al ragazzo la possibilità di essere ascoltato e accolto anche nel suo bisogno di differenziarsi e autonomizzarsi; ma che sia anche fermo, in grado di contenere il tumulto dei suoi cambiamenti e conflitti interiori. Dobbiamo essere noi adulti quelli adattabili. La troppa rigidità è vissuta come distanza e come abbandono, in questo caso il ragazzo dà segnali riconoscibili: provocazione, opposizione, demotivazione. E’ necessario spiegare che si agisce nell’interesse reale così non si sentirà scaricato.
Il ragazzo disorientato o inibito nel rapporto con i suoi genitori più facilmente, invece, sarà preda della “pressione del gruppo”, non solo nella moda, nei gusti, negli atteggiamenti, nel linguaggio (il che è perfettamente normale), ma anche nelle scelte ideologiche e nei valori di fondo.
Oggi sembra che la tappa dell’adolescenza sia un po’ dilatata, allungata.
Una delle cause è la difficoltà di “futurarsi”, pensarsi nel futuro, che i ragazzi incontrano oggi durante la formazione dei loro studi. Un tempo durante lo studio, sapere che comunque ci sarebbe stato un lavoro ad attenderli rassicurava gli adolescenti di qualche decennio fa.
Altra causa è l’atteggiamento dei genitori che consapevoli e angosciati da questo cercano di proteggerli, e questo fa si che alcuni ragazzi non si assumano responsabilità, non inizino nemmeno a lottare, ad agire; si fermano nell’inedia, nella passività. Ciò che più impensierisce è la sensazione di vuoto; come se la paura li disorienti talmente tanto da non saper da che parte iniziare, allora non resta che rimanere fermi, sospesi. Si mimetizzano risparmiando forze ed energie, sembrando pigri e irresponsabili. Alcuni sentono di non funzionare bene e hanno atteggiamenti di demotivazione, di ritiro.
Ma non è così, sono sgomenti. Sentono gli adulti vicini ma nello stesso tempo lontani perché impotenti, preoccupati.
Solitamente come medico mi capita di intervenire quando il problema appare evidente nei vari contesti, scuola, casa, ambiente sociale, ed è necessario intervenire.  D’altro canto ci sono situazioni di disagio in cui non possiamo intervenire perché non sono portate a nostra conoscenza. Segnali di disagio si manifestano attraverso forme di depressione, disturbi d’ansia e fobie, disturbi psicosomatici e disturbi del sonno o dell’alimentazione.
In questo clima d’incertezza è ancora più difficile essere genitori di adolescenti, è una prova ancor più faticosa ma è doveroso prevenire difficoltà più grandi. E’ necessario definire un compito chiaro e preciso; qualunque sia la meta senza un suo significato perderà valore e non costituirà una sfida. L’obiettivo deve essere misurabile e raggiungibile seppur stimolante, con i ragazzi occorre lavorare con uno sguardo al futuro ma restare sull’immediato. Ci si dovrebbe ricordare di lodare l’adolescente in pubblico e criticarlo in privato e abituarsi a farlo con poche parole, separando l’errore dalla persona, tenendo a mente che attraverso le fasi di rivolta in cui l’adolescente è teso a stupire e ad affermare Se, lentamente allenterà le tensioni e accetterà un confronto fino a ridimensionare il suo giudizio, fino a far tacere i tumulti che lo investono e a stabilire un accomodamento interno necessario a ripartire per una nuova fase di vita in cui non crederà più di poter riorganizzare il mondo ma comincerà a organizzare il suo piccolo mondo, Se.

Disturbi del ritmo sonno veglia.

Disturbi del ritmo sonno veglia.

I disturbi del ritmo sonno veglia rappresentano per il Neuropsichiatra Infantile uno dei motivi più frequenti di richiesta di visita sia che si tratti di un neonato che di un bambino di età scolare. Solitamente il disturbo del sonno preoccupa sempre i genitori quando la quantità del sonno è in difetto, quasi mai preoccupa quando esso è in eccesso…
Infatti, spesso i neo genitori dei piccoli neonati telefonano allarmati e sfiniti quando, presi tra poppate e colichette, non riescono a chiudere occhio di notte e a godere essi stessi di un sonno ristoratore. Le mamme a questo punto sono preoccupate che il loro infante abbia qualcosa che non va, preoccupate di non riuscire a capirlo nei suoi bisogni e rischiano di cadere in una spirale di ansia, angoscia e panico che le conduce in uno stato di prostrazione, di stanchezza che qualche volta rischia di rinforzare quel periodo fisiologico di fragilità conosciuto con il nome di “ depressione post partum”.
Il sonno come l’alimentazione rappresenta uno dei canali di comunicazione di disagio del bambino, ma esso rappresenta anche un grande piacere, qualcosa che fa star bene. Si dice infatti: ”Dorme come un angelo”, come a dare del buon sonno il significato di qualcosa di celestiale, ultraterreno.
Spesso si ritiene, a torto, che un bimbo debba necessariamente solo mangiare e dormire. Tra genitori si dà ascolto all’esperienza degli altri, ci si confronta e sembra sempre che tutti gli altri bambini dormano senza problemi, tutti tranne il proprio. Per questo è facile che si faccia strada, nella testa di alcuni, l’idea che nel proprio bambino ci sia qualcosa che non va o il dubbio di essere genitori che sbagliano qualcosa. Invece non è poi così naturale che tutto fili liscio.
In realtà esiste uno spazio di tempo necessario affinché il bambino sia in grado di raggiungere un certo grado di autoregolazione. Non è sempre semplice la comunicazione con una creatura di pochi giorni, non è facile cogliere i suoi segnali, soprattutto se si è inesperti e alle prime armi, è concesso sbagliare se serve poi a far meglio.
Primo passo è di escludere che alla base del disturbo del sonno ci sia una patologia neurologica, un problema fisico (es. fame, reflusso gastroesofageo), un problema ambientale (es. freddo, caldo, luce, rumore).
Molto spesso mi si chiede se sono favorevole a metodi spiegati in un famoso libro che tratta di come far dormire i bambini… personalmente penso che non sia mai un bene generalizzare penso che non si possa pensare che i bambini siano pronti allo stesso modo nello stesso momento, penso che una cosa possa andar bene a uno e non bene a un altro. Per qualche bambino è possibile, per altri no, per qualche genitore è possibile per altri no. Non è detto che chi non ci riesce sia meno bravo e più debole di chi ce la fa.
Non tutti hanno la stessa capacità di tollerare il pianto, la protesta del bambino. Il distacco per lui può significare solitudine, separazione ed esclusione ma non c’è nulla di anomalo, si tratta di sentimenti ed emozioni inevitabili nello sviluppo evolutivo del bambino, sono “prove” da affrontare e da superare a poco a poco per poter crescere.
La vita di fatto inizia con una perdita, un distacco. Durante la vita intrauterina non c’è separazione, si è sempre insieme, c’è fusione. Fino alla nascita è probabile che vostro figlio vi conosca meglio di quanto voi conosciate lui. Fino a quando è nella pancia, lui è intento a mangiare, dormire e sentire. Sente il cuore della mamma, le voci, i suoi movimenti, i suoi gusti e i sapori, le sue emozioni. Tanto è che molte mamme rimpiangono la gravidanza, la pancia, perché era un momento in cui non si sentivano mai sole, “ sì alla fine ero stanca, mi pesava, ma poi che tristezza scoprire che la pancia non c’era più”…
Una volta fuori dall’utero il bambino sperimenta la gratificante illusione che sia lui che la sua mamma dividono gli stessi confini. La sua mamma si frappone tra lui e il mondo proteggendolo dall’angoscia sovrastante. I bambini hanno bisogno della sua continua presenza, perché non tollerano la separatezza fisica e psichica.
E’ complicato diventare una persona a se stante. Come dice uno scrittore che apprezzo molto “ essere in due comincia dalle madri”. Difficile trovarsi da soli sulle proprie gambe e avanzare barcollando, sarebbe più comodo rimanere tra le braccia materne. Quando ci si riesce, però la perdita è controbilanciata dal guadagno delle esperienze fatte allontanandosi.
Ma se questo avviene troppo presto, al momento sbagliato il costo della separazione può essere troppo alto.
I bambini hanno antenne acutissime si sa, assorbono come spugne il clima familiare, l’energia e la gioia del loro arrivo li rinforzano ma essi assimilano anche le ansie e le tensioni dell’atmosfera familiare intossicandosi. Assumono i carichi di sollecitazioni esterne legate a eccitazioni e nervosismo. Tutto può interferire col ritmo sonno veglia, i cambiamenti delle abitudini e dei ritmi variazioni che richiedono un tempo di adattamento più o meno lungo. Tra i cambiamenti influiscono anche gli apprendimenti stessi del bambino, l’inserimento al Nido o alla Materna, le vacanze, un trasloco, l’arrivo di nuove nascite, le separazioni, i conflitti, un licenziamento, un lutto.
I piccoli, infatti, risentono anche di situazioni che fanno parte dell’esistenza, circostanze imprevedibili che possono portare con sé distrazione, allontanamento e distacco, ad avere la testa altrove. Ciò può rendere difficile assicurare il nutrimento affettivo necessario ai bambini, la mancanza di nutrimento emotivo è poi come dormire con la pancia vuota…molto penoso.
Quindi perché mai rinunciare per perdere il controllo e sprofondare nell’oblio?
Il sonno è un momento di vita molto importante. E’ la fase che contribuisce allo sviluppo del pensiero, fase in cui il bambino si può distogliere dalle sollecitazioni del mondo esterno, rientrare in se stesso. Egli dormirà meglio più la veglia si sarà svolta in un clima sereno, stimolante ma non troppo stancante.
Il bimbo nelle fasi di addormentamento in realtà vuole essere lasciato tranquillo per poter appisolarsi, ha bisogno di tranquillità, in un certo senso ha bisogno di ritiro, come avrà bisogno di poter giocare da solo. Il Sonno ha valore di separazione e distacco dai genitori ma anche dai giochi, dall’esterno che sta scoprendo.
Anche da neonato, infatti, inizia a farlo, quando sembra, bastarsi da solo, inizia a comunicare tra se e se, facendo i conti con le immagini, i ricordi e i desideri che prendono una forma sempre meno confusa. Sperimentando l’unicità ci concede una tregua dalla solitudine della separatezza.
Non è detto che tutto fili liscio, certamente ci saranno momenti in cui il bimbo si sentirà abbandonato e userà il pianto come richiamo ai suoi bisogni.
Ciò che si deve fare è aiutarlo e consolarlo perché si sente solo, ha paura, ma resistere e non portarlo con sé nel lettone, (sebbene sia da considerarsi fino a che punto, questo vada a vantaggio del bambino e quanto della coppia… molto spesso alcune richieste arrivano anche da mamme di bambini dai sei ai dodici anni che non riescono più a gestire un figlio, talvolta anche due, che s’infila nel lettone) altrimenti ciò assumerà valore di soluzione magica a ogni forma di disagio.
Unica cosa è consolarlo di notte e tenerlo vicino di giorno, parlargli, giocare con lui. Anche se crollano, tendono a rimandare, i più grandi a contrattare.
• Perché sanno che mentre loro dormono la vita continua e loro vorrebbero partecipare!
• Per paura dell’abbandono, che dormendo tutto venga meno. Vivono l’angoscia profonda e radicata di non ritrovare più nulla, soprattutto nella fase dei conflitti, delle rivalità e dei castighi.
• Se c’è poco tempo per lui dopo il rientro dal lavoro rivendica il mal tolto, “la fa pagare”.
Compito dei genitori è gestire la regressione in modo che essa sia accettata e aspettata.
Il consiglio è di facilitare il passaggio al sonno con l’utilizzo di rituali che si cambiano quando hanno esaurito la loro funzione, buio-luce, silenzio-carillon, peluche, storia, ninnananna. Rituali ripetitivi e quindi rassicuranti per lui perché può controllarli e quindi, come controlla quello, pensa di controllare il resto, altro da Se.
E’ necessario agire con passaggi graduali, poco importa se vi saranno intoppi, anche l’eccezione che conferma la regola è importante basta che vi sia coerenza tra i due genitori.
Tra le difficoltà del ritmo sonno-veglia nel 1° anno d’età le più frequenti si manifestano con insonnia agitata e calma, opposizione. Nel 2°-3° anno con fobie per andare a letto, atteggiamenti di opposizione e provocazione.
Tra le condotte patologiche vi sono il sonnambulismo, gli automatismi motori, le angosce notturne: il “pavor notturno” caratterizzato da risveglio ansioso, occhi sbarrati, il bambino urla e non riconosce chi accorre, lo respinge.
Tra i rituali la ninna-nanna ha mantenuto inalterata nel tempo la sua funzione. Unisce l’effetto calmante della voce, del tatto, permette “l’incantamento”, ha quasi un effetto ipnotico! La ninna-nanna, patrimonio culturale di ogni popolo, permette inoltre alla mamma di riposare anch’essa per poter poi dedicarsi a ciò che deve ancora finire di fare, ma soprattutto le permette di finire la giornata del proprio bimbo prospettando un domani positivo, augurandogli solo cose belle, solo sogni d’oro.

Bambini nella tempesta della separazione coniugale

Bambini nella tempesta della separazione coniugale

E’ bene conoscere e prevenire il vero dramma provato dai soggetti più deboli della famiglia

Emma: “… Non mi aspettavo che i miei genitori  si separassero… però mi sono sentita sollevata perché finiva il casino…ma mi dispiace per mio fratello, cresci diversamente con due genitori separati, dubiti anche nelle altre relazioni con le persone che incontrerai nella vita…  Credo che se i tuoi stanno insieme, cresci più sicuro, hai una personalità più solida, puoi allacciare legami più duraturi…” Chiara: “…non piango perché loro litigano, sono preoccupata… non perché si separano, ma per come litigano, per quello che potrebbe succedere… magari il papà fa del male alla mamma…”.

Ho scelto di parlare con le parole di Emma e Chiara (nomi di fantasia), per parlare di ciò che provano i bambini, i ragazzi coinvolti nella separazione dei loro genitori.

“Il matrimonio -scrive Malinowski- rappresenta uno dei più difficili problemi personali della vita…”. Certe volte l’amore muore, e lo spazio tra ciò che uno deve avere e l’altro può dare non coincide più. Le premesse o le promesse non vengono rispettate, le aspettative insoddisfatte sfociano in torti, insulti. Ci si fa deliberatamente del male e  non si tollera più niente. Ogni pretesto viene usato contro l’altro. La fine del matrimonio rappresenta sempre un lutto, la perdita di un progetto di vita, la delusione di non far più parte di una coppia e molto altro ancora.

Nell’ultimo decennio si è assistito ad un progressivo aumento delle disgregazioni familiari, delle separazioni e dei divorzi di coppie con figli. Fare famiglia richiede elevati investimenti, creare una famiglia è fonte di stress e di vulnerabilità; oggi non si può più considerare un punto di arrivo, ma un punto di partenza. Si sa che i genitori, scegliendo di formare un nucleo familiare, si assumono il dovere di garantire le cure necessarie alla crescita della prole, ma ciò che forse passa in secondo piano è che essi esercitano anche un’enorme influenza sullo sviluppo emozionale ed affettivo dei figli.

Appare evidente che, allo stesso modo così come da adulti ci preoccupiamo di assicurare l’indispensabile e di rispondere ai bisogni dei nostri figli, dobbiamo prendere sul serio le emozioni dei nostri bambini e dei nostri ragazzi.

Le emozioni dei figli coinvolti in una separazione coniugale sono tante e sono in parte l’effetto di un dolore, intimo ed immenso. Talvolta i figli sembrano non avere manifestazioni che si discostino dalla normalità. L’assenza di manifestazioni può far credere che il bambino/ragazzo non si preoccupi di ciò che succede tra i genitori, che la cosa non lo riguardi. Invece i figli sono preoccupati di non capire cosa succede, perché i genitori discutano, chi abbia cominciato. Per gli adulti e i bambini, per tutto il nucleo familiare, la separazione corrisponde ad uno stato di sofferenza profonda, di rottura di un equilibrio, che cambia un assetto e crea disorientamento. Prima di consolare o parlare con i figli, è fondamentale ascoltarli, lasciare che si esprimano. Ma è necessario ascoltarli in tutti i sensi e “con” tutti i sensi, non solo con le orecchie. I bambini vanno prima di tutto guardati, perché spesso il loro sguardo esprime quello che le parole non dicono. Così il loro modo di spostarsi, di muoversi, fa capire cosa davvero provino e pensino.

Quanto dolore può sostenere un bambino senza poterlo esprimere in famiglia, senza poterlo dire nemmeno a se stesso?

Immaginate che il bambino arriva al punto in qui egli non sa più dove sia finita la sua famiglia, la sua casa; anche se ora ne le ha tutte e due, per lui è come se non ne avesse nessuna.

La casa è divisa, diviso è l’amore, divisa è la sicurezza e la famiglia, diviso è lui.

E’ normale che un bambino soffra per la divisione dei genitori, ed è vitale che sia aiutato a sopportarla meglio che può. E’ importante che la sua tristezza trovi un modo per raccontarsi.

La famiglia media cerca di solito di prevenire e risolvere i disturbi e i disagi dei propri figli senza ricorrere all’aiuto del professionista. Infatti, il compito del terapeuta non è quello di sostituire la famiglia funzionante; tuttavia egli può affiancarla, quando la stessa famiglia non può funzionare bene. E’ possibile così trovare un aiuto quando sta per abbattersi sulla casa, sul nucleo familiare, una tempesta che travolgerà tutto e tutti. E nulla, poi, sarà più come prima.

Il ruolo dello specialista è allorta quello di dare sostegno alla genitorialità, con il compito di recuperare le funzioni che sono state messe in ombra dal conflitto. Uno degli obiettivi è cercare nuovi canali di comunicazione e soprattutto ricondurre i genitori ad un pensiero comune sui figli. Nessuno di noi genitori vorrebbe fare deliberatamente qualcosa per mutilare moralmente, spiritualmente ed emotivamente i propri figli, ma talvolta nel conflitto è quello che capita. Spesso, la contesa per l’affidamento dei figli avviene con un accanimento tale, che i coniugi impegnati nella lotta per garantirsi il titolo di buon genitore finiscono per osteggiarsi, non accorgendosi delle conseguenze del loro comportamento sui figli. La conflittualità degli adulti può essere così distruttiva da far sentire il bambino responsabile, con la propria presenza/assenza, della felicità del genitore. La relazione alterata, soprattutto a livello emotivo può dare spazio a incomprensione, atteggiamenti di difesa, competizione e manipolazione. Nei figli c’è confusione e conflitto di lealtà, cioè essi temono che ciò che provano per un genitore possa ferire l’altro. Pensano: “Se io mi diverto con papà, renderò triste la mamma”, come se dovessero scegliere; e loro, che naturalmente vogliono bene ad entrambi i genitori, stanno davvero male.

Molti bambini sono precocemente coinvolti nei problemi di coppia dei loro genitori e ciò dà origine ad ansie, turbamenti e altri problemi. Secondo Packard (1983), per molti bambini crescere significa chiedersi se i propri genitori si separeranno o, se già si sono separati, se dovranno vivere per sempre con un solo genitore. Il momento difficile della crisi coniugale vuole spesso dire che i bambini hanno a che fare con genitori distratti, incentrati sul proprio ruolo nella vita.  Per i bambini vuol dire essere spesso soli e talvolta adattarsi a convivere con un “estraneo”. Quello che risulta essere un periodo difficile e stressante per un adulto, lo è anche e soprattutto per un bambino o per un ragazzo. Oltre una certa soglia, questo accumulo di stress può creare problemi. I figli allora mettono in atto comportamenti regressivi, perdono di autonomia (esempio tornano nel lettone); al contrario, si dimostrano ipermaturi e superautonomi (“non ti preoccupare, d’ora in poi sarò io l’uomo di casa”). Talvolta si allineano in maniera esclusiva ad uno dei due genitori, sviluppando una reazione di repulsione e rispingimento dell’altro. A volte si finisce con l’attribuire al figlio un ruolo che non dovrebbe avere, di partner, di genitore; “…è così sensibile, pensi che è lui che consola me… lei è una bambina forte, non ha mai pianto…”.

I bambini percepiscono il disagio che c’è in famiglia, ma non sempre hanno gli strumenti per comprenderne le cause reali e tendono ad attribuirsene la colpa. La situazione conflittuale, che precede e succede alla separazione, rappresenta un fattore pregiudizievole per la salute psicofisica e relazionale dei figli che, in genere, tendono ad assumere un comportamento strategico-difensivo mostrando, a tratti, una buona capacità di adattamento ed evitando di manifestare la propria sofferenza. In genere, però, questo coperchio messo a coprire la “pentola”, quasi a tapparsi la bocca, fa si che la sofferenza dei bambini si traduca in altri sintomi: fobie, disturbo del sonno, dell’alimentazione o del comportamento; comportamento che cambia, ma di solito fuori casa, spesso a scuola, bambini distratti, che sottraggono il materiale degli altri, che diventano impertinenti e che attuano atteggiamenti di scherno e derisione. Oppure bambini silenziosi, con “la testa altrove”, che piangono per nulla.

E’ noto che i bambini hanno bisogno di stabilità, di riferimenti chiari e facili, hanno bisogno di essere attorniati da persone che gli comunicano calore, la sensazione di essere al centro dei loro pensieri, di contare. Un bambino si sente più forte se può esibire una famiglia forte, unita, “regolare” e che risponda alla sua ricerca di identità, al bisogno di appartenere. Invece, nella separazione,  i problemi e i conflitti si ripercuotono sui minori, che si sentono merce di scambio, si sentono messi al centro di ripicche e contese, si sentono di non appartenere più a nessuno e che niente gli appartenga davvero più. Il senso di perdita genera angoscia. Se al figlio la perdita sembra permanente e definitiva, l’angoscia può arrivare a lasciare il posto alla depressione e alla disperazione.

I figli si sentono soli e tristi, colpevoli (“forse l’ho costretto io ad andarsene”), impotenti (“cosa posso fare io, che sono solo un bambino, per farli tornare insieme?”), indesiderabili; pensano di non meritare niente (“non pensano più a me, non conto niente e non mi vogliono più”). Inizia a crescere progressivamente in loro la paura di perdere un genitore, il senso di impotenza, la gelosia e il conflitto di lealtà, la fantasia di riunificazione. Tutti i figli di separati sperano nel loro intimo che i genitori tornino insieme, lo sperano anche quando hanno quarant’anni, anche quando razionalmente sanno che non sarà possibile, anche quando ammettono che “è meglio di no”.

Non è mia intenzione spiegare ai genitori come debbano comportarsi; possiamo ingolfarci di informazioni su come allevare i figli e cercare di essere buoni genitori, ma niente e nessuno ci risparmierà di commettere inevitabili errori. Questa è la distanza tra “sapere” e “fare”. Si può sbagliare perché vi sono eventi nella vita che possono assorbirci totalmente e proprio quando i figli hanno bisogno di noi non possiamo esserci, per aiutarli.

Solitamente, come Neuropsichiatra infantile, mi capita di intervenire quando il problema è ormai evidente, ma  credo fermamente che nelle situazioni di conflitto familiare il lavoro è un buon lavoro quando ha il compito di prevenzione, di supporto alla famiglia. Il ruolo del Neuropsichiatra infantile, in genere, è quello di occuparsi dello sviluppo affettivo dei bambini/ragazzi e di ciò che dal punto di vista ambientale interferisce con la loro maturazione. Il nostro compito è quello di insistere sul diritto dei minori di essere felici e sul dovere di ogni genitore di aiutarli ad esserlo. Prevenire l’infelicità è possibile, formulando un progetto educativo in cui i genitori condividano uno spazio mentale in cui collocano i propri figli, anche con stili diversi, ma coerenti.

So bene che è difficile legittimare e dare un’immagine buona dell’altro genitore che è stato fonte del proprio dolore, che  ferisce; ma ci si può riuscire, se si riconosce che anche l’altro ha in qualche misura subìto e provato una parte dello stesso dolore. Si può riuscire a trovare un campo neutro, soprattutto se si tiene ben presente che il bambino deve restare il soggetto di cui prendersi cura, sempre e prima di tutto. La coppia decide di mettersi insieme e decide poi di separarsi, il bambino non decide niente; né di avere quei due genitori, né di essere diviso a metà. Non ha scelto lui, non lo vuole, non né ha colpa. Non è possibile restituirgli ciò che c’era prima, ma è possibile riconsegnare ai figli la loro famiglia, trasformata. Se i genitori restano un buon padre e una buona madre offrono tutto ciò che al figlio serve. Se continueranno ad occuparsi di lui condividendo le informazioni, permettendo che continuino a frequentare le famiglie di origine (nonni e zii dell’ex-coniuge), pensando che questo sia un loro diritto, senza rancori, essendo presenti agli impegni che lo riguardano, basterà perché lui torni ad essere sereno. Capisco bene che ciò possa essere faticoso, ma è uno sforzo che va fatto.

Il nostro compito è di trovare una voce che vada oltre le urla, cercando di ritornare sui fatti e dandone una lettura diversa, evitando però di riaprire le ferite. E’ essenziale presentare ai ragazzi le cose con un linguaggio adatto a loro, spiegando ciò che sta succedendo, proteggendoli dai danni dovuti ai silenzi pesanti, perché “non si sa cosa dire, perché non c’è bisogno di spiegare… perché l’hanno capito da soli…”. Spiegare che c’è un problema nella coppia coniugale toglie i figli dalla confusione e dal continuo impegno mentale, per capire cosa succede tra mamma e papà.

Non è necessario spiegare “tutto”, anzi si deve mettere un filtro e lasciare che sappiano solo ciò che serve. Ai figli non servono i dettagli: chi ha deciso la separazione, che sia assegnata  una colpa, che sia trovato un motivo. I figli non possono diventare i confidenti o consiglieri.  Vanno protetti  dagli atteggiamenti che spontaneamente e inconsapevolmente vengono utilizzati per riavvicinarsi al partner, per ristabilire i contatti e mantenere un legame e, quando questo non è possibile, che diventino mezzo di comunicazione alternativo ad email e sms, per sfogare la collera e dare spazio al risentimento.

Meglio intervenire prima, permettendo agli ex coniugi di trovarsi in uno spazio comune “per il bene dei figli”, ma anche per il loro, in un rapporto cambiato nell’assetto e nei sentimenti, nel quale non esista più la “coppia coniugale” ma emerga integra la “coppia genitoriale”.

Lo spazio neutro permette agli ex coniugi di anteporre il loro essere genitori a tutto il resto, permette ai figli di ritornare ad essere la priorità, di recuperare il loro inestimabile valore, di individui impegnati a crescere.

Dott.ssa Cristina Albertini

Neuropsichiatria infantile

 

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